La Città Incantata (dal 2000 al 2004)
Da qui la fotografia di Maurizio Rinaldi sembra abbandonare alcuni vincoli con le origini nella fotografia di paesaggio a colori di tradizione emiliana, con la pesante eredità ghirriana. Non vi è la presenza "astante" degli oggetti ben stagliati, tutti a fuoco, lo stupore della visione non passa dallo "stare di fronte" centrale e nitido. Sembra che di quella tradizione Rinaldi voglia evitare l'adesione al documentarismo estraniante di Walker Evans, o magari riprenderne le fila a partire dalle istantanee, dalla dichiarata frammentarietà degli episodi più recenti, in particolare le serie sulle Subways. Sembra anche che l'autore intenda mostrarci la chiusura di un cerchio, di un ciclo: torna al Luna Park, dove iniziava due anni prima La mia collezione di modellini, ma vi torna proponendone il lato opposto. Nella prima serie gli oggetti, la loro percezione, erano allontanati e puntualmente descritti, analizzati con un' attitudine quasi catalogica o entomologica in una luce neutra. Qui la messa a fuoco è abbandonata come se fosse abbandonata la volontà di definire e analizzare, di ridurre l'oggetto a modello.
In questa serie vengono esplorate possibilità della fotografia notturna lungo una linea opposta a quella codificata nella foto di paesaggio della fine del secolo scorso: non gli spazi metafisici di Olivo Barbieri, non i volumi congelati e resi deserti da lunghi tempi di posa e inattese profondità di campo. Una sfocatura uniforme lascia espandere i colori vividi, permette alle luci e ai corpi di compenetrarsi.
E' una fotografia senza cavalletto (o per lo meno ostenta una mobilità incompatibile con l'attrezzeria normalmente associata alla foto notturna) ma non istantanea, non rubata. Prendono un rilievo inconsueto (per questo autore) le sequenze, l'articolazione del tempo per inquadrature che non dispiegano però alcuna azione, nesuna recitazione. Per questo sono i gesti minimi (una mano che scivola su una spalla, il mostrarsi di due ragazze in una biglietteria (ma è ancora fotografia del cinema, Robbie Muller per Wenders in Paris-Texas, a venire in mente) a prendere un rilievo imprevisto, quasi doloroso.
Non è un fiabesco disneyano quello che si dispiega in questa sequenza di coloratissime immagini, a tratti sembriamo più vicini alle figure disfatte di Ensor, alle sue fiere di paese non prive di crudeltà. Forse c'è anche Disneyland, quella sognante della celebre foto del castello di Diane Arbus (quando ancora non era paradigma del non-luogo), ma dietro sono ben presenti le altre figure, dolorose e grottesche, della grande fotografa nuovaiorchese. Rinaldi organizza la sequenza in modo che l'ancoraggio alla descrizione puntuale di qualche elemento slitti continuamente: magari aggrappandosi alla polvere del suolo, alle figure rese come manichini esili, e poi si procede abbandonando anche questi minimi appigli, con campiture ampie e morbide di luci e colori. Solo alla fine si tornerà ad un -modellino-, una giostra, dove tutto è fermo.
©Paolo Barbaro
Da qui la fotografia di Maurizio Rinaldi sembra abbandonare alcuni vincoli con le origini nella fotografia di paesaggio a colori di tradizione emiliana, con la pesante eredità ghirriana. Non vi è la presenza "astante" degli oggetti ben stagliati, tutti a fuoco, lo stupore della visione non passa dallo "stare di fronte" centrale e nitido. Sembra che di quella tradizione Rinaldi voglia evitare l'adesione al documentarismo estraniante di Walker Evans, o magari riprenderne le fila a partire dalle istantanee, dalla dichiarata frammentarietà degli episodi più recenti, in particolare le serie sulle Subways. Sembra anche che l'autore intenda mostrarci la chiusura di un cerchio, di un ciclo: torna al Luna Park, dove iniziava due anni prima La mia collezione di modellini, ma vi torna proponendone il lato opposto. Nella prima serie gli oggetti, la loro percezione, erano allontanati e puntualmente descritti, analizzati con un' attitudine quasi catalogica o entomologica in una luce neutra. Qui la messa a fuoco è abbandonata come se fosse abbandonata la volontà di definire e analizzare, di ridurre l'oggetto a modello.
In questa serie vengono esplorate possibilità della fotografia notturna lungo una linea opposta a quella codificata nella foto di paesaggio della fine del secolo scorso: non gli spazi metafisici di Olivo Barbieri, non i volumi congelati e resi deserti da lunghi tempi di posa e inattese profondità di campo. Una sfocatura uniforme lascia espandere i colori vividi, permette alle luci e ai corpi di compenetrarsi.
E' una fotografia senza cavalletto (o per lo meno ostenta una mobilità incompatibile con l'attrezzeria normalmente associata alla foto notturna) ma non istantanea, non rubata. Prendono un rilievo inconsueto (per questo autore) le sequenze, l'articolazione del tempo per inquadrature che non dispiegano però alcuna azione, nesuna recitazione. Per questo sono i gesti minimi (una mano che scivola su una spalla, il mostrarsi di due ragazze in una biglietteria (ma è ancora fotografia del cinema, Robbie Muller per Wenders in Paris-Texas, a venire in mente) a prendere un rilievo imprevisto, quasi doloroso.
Non è un fiabesco disneyano quello che si dispiega in questa sequenza di coloratissime immagini, a tratti sembriamo più vicini alle figure disfatte di Ensor, alle sue fiere di paese non prive di crudeltà. Forse c'è anche Disneyland, quella sognante della celebre foto del castello di Diane Arbus (quando ancora non era paradigma del non-luogo), ma dietro sono ben presenti le altre figure, dolorose e grottesche, della grande fotografa nuovaiorchese. Rinaldi organizza la sequenza in modo che l'ancoraggio alla descrizione puntuale di qualche elemento slitti continuamente: magari aggrappandosi alla polvere del suolo, alle figure rese come manichini esili, e poi si procede abbandonando anche questi minimi appigli, con campiture ampie e morbide di luci e colori. Solo alla fine si tornerà ad un -modellino-, una giostra, dove tutto è fermo.
©Paolo Barbaro
Maurizio Rinaldi © 2018